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CIVIASCO OSPITA UNA MOSTRA DI LINO TOSI: “IL SENSO DELL’INQUIETUDINE”

 

Dal 23 giugno al 1 luglio 2018

Sala polivalente "E.Durio" - Civiasco

Il Comune di Civiasco ospita una nuova mostra dell’artista varallese, nato nel 1921 e scomparso nel 2005, schiantato dal dolore per la morte del fratello Aldo, per rendergli un dovuto omaggio e rinnovarne la memoria, a distanza di quasi dieci anni dall’ultima mostra postuma, allestita nell’estate 2009, a Varallo, a Palazzo dei Musei, nei locali che ospitarono il Laboratorio Barolo: “Lino Tosi (Varallo 1921-2005). Arte e Vita”, affettuosamente composta dal restauratore varallese Enzo Lippi e dal volume: “Percezioni del sacro. Opere di Lino Tosi”, curato dall’artista Claudio Bonomi, presentato nell’estate successiva, che evidenzia come il rapporto di Tosi con il sacro fosse difficile e tormentato,  segnato da quelle che si possono considerare vere e proprie tappe esistenziali, come la realizzazione della cappella ai piedi della strada che conduce al Sacro Monte, con al centro una Madonna di luce, affiancata da San Carlo Borromeo e dal Beato Bernardino Caimi.  

Il nipote di Tosi, Gianni Testa, con la collaborazione ed il patrocinio del Comune di Civiasco, presieduto dal Sindaco Davide Calzoni, all’ultimo piano del Palazzo Comunale, più vicini al cielo, ha creato un articolato percorso espositivo dominato dal senso dell’inquietudine, quell’intimo travaglio ed impalpabile disagio, che accompagnò l’artista in tutta la sua travagliata esistenza.

Sono esposte anche molte opere inedite, soprattutto appartenenti all’ultimo periodo della vita dell’artista, che con grande determinazione superò l’ictus che lo aveva colpito nel 1987, lasciandogli un’emiparesi nella parte destra del corpo, imparando a disegnare con la mano sinistra, con esiti nuovi e carichi di un’intensità affettiva che alleggeriva i colori: nacquero quadri chiari, ma di pietra e di legno, duri, nodosi, specchio di come era diventata la metà del suo corpo.

Mi è stato chiesto di scrivere una breve introduzione alla mostra e ne sono stata felice, quasi per pagare un debito di riconoscenza verso un’artista che incontro ogni giorno venendo al lavoro in Biblioteca: il bassorilievo in Via Federico Tonetti, che raffigura la donna valsesiana, con il caratteristico costume, un bambino abbarbicato al collo, in mano un falcetto e ai piedi una pecora. Questa possente figura, caratterizzata da mani e piedi nodosi e molto grandi, per enfatizzare il carico di fatica e di preoccupazioni che doveva sopportare, contrastanti con il viso liscio, ma dall’espressione triste e severa, esprime tutto il tormentato mondo artistico di Tosi e la storia della Valsesia, con la solitudine delle donne per l’emigrazione maschile, un allevamento ed un’agricoltura di sussistenza, praticata in terreni strappati alla montagna, bambini che crescevano troppo in fretta, senza conoscere l’età felice della fanciullezza. Quel bassorilievo incastonato nel muro è lì dal 12 marzo 1988, ma per me è un saluto quotidiano, fonte di riflessioni sempre nuove.

La casa è un luogo simbolo, che ha un ruolo importante nella vita di ogni persona e tanto più per un artista come Lino Tosi, che rinunziò ad una carriera prestigiosa a Bologna, come assistente di Paolo Manaresi, per non abbandonare la sua Valsesia, alla quale era legato da un intenso rapporto di amore-odio. Lino Tosi abitava sopra il ponte del Busso, nell’ex convento di San Pietro Martire, da lui amorosamente recuperato, scavando i pochi resti, ricollocandoli e valorizzandoli, trasformando il luogo in casa e studio, attraverso un ora et labora di benedettina memoria. In quella “casa del silenzio”, animata da antiche presenze, Lino Tosi scelse una vita ritrosa, nascosta, lontana da un mondo chiassoso e indifferente, di rigore quasi monacale, per potersi dedicare completamente all’arte. Amava la solitudine, che condivideva con la sua inseparabile e silenziosa compagna Adriana, ma non era un misogino.

La vita di Lino Tosi è povera di avvenimenti, perché quello che conta è la sua arte: un’accorata ricerca di senso, di verità, di chiarezza. Nacque a Varallo nel 1921 e fin da bambino dimostrò un’attitudine non comune al disegno. I genitori gestivano un’osteria frequentata da avventori che riempivano con il vino le pause concesse da una vita grama. Lino frequentò con profitto la scuola di disegno promossa dalla Società d’Incoraggiamento e nel 1935-36 con un bellissimo altorilievo, vinse il premio Dux e fu invitato a Roma. Fu apprezzato da Paolo Manaresi, che forse fu il miglior incisore italiano, e insegnò alla Scuola d’Arte di Bologna, occupando la cattedra che era stata di Giorgio Morandi. Lino Tosi frequentò l’Accademia bolognese, ma purtroppo la sua formazione di uomo e di artista coincise con gli anni terribili della seconda guerra mondiale e della Resistenza. Combatté nell’esercito italiano come ufficiale, e nel 1943 entrò nelle formazioni partigiane, diventando uno dei protagonisti della Resistenza nelle nostre vallate, fece parte della Brigata “Strisciante Musati”, di cui disegnò lo stemma: un mitra avvolto da un serpente. Alla fine della guerra quell’esperienza di precarietà e violenza, la perdita di compagni ed amici, segnò pesantemente il fisico e soprattutto la mente, e l’artista cominciò a chiudersi in un suo mondo impenetrabile nel quale cercare impossibili risposte ad un dramma insensato. A questo si aggiunsero le difficoltà economiche, causate anche dai suoi frequenti ricoveri ospedalieri. Si sentì solo e abbandonato da tutti e quella tristezza interiore non lo lasciò mai più. Nel 1947 insegnò a Varallo e a Romagnano, ma anche quello non era il suo mondo. Lino Tosi non era un insegnante, ma un Maestro.Trovò un suo ruolo alla Scuola Barolo, in cui cultura e arte erano l’una il completamento dell’altra, incontrando e condividendo l’insegnamento con i migliori artisti dell’epoca: da Reffo a Sassi, Farinone, Giroldi, cercando di sfuggire al “male di vivere”.

I suoi allievi, dopo la scomparsa, gli tributarono un commosso omaggio: “Grazie a lui portiamo in noi la convinzione di cosa sia l’arte: quel laboratorio d’arte si trasformò in bottega, nella quale esercizio, ricerca ed espressione hanno accompagnato serate di intenso lavoro e dialogo. Ricordiamo lo sguardo attento del Maestro, la sua parola precisa, che arrivava non solo alle forme che tentavamo di realizzare, ma a tutto ciò che dentro di noi animava le nostre rappresentazioni. Ci faceva sentire in cammino con lui”.

Alla prima mostra milanese, allestita nel 1957 alla prestigiosa Galleria d’Arte Cairola, in Via della Spiga 30, dove aveva sede il “Premio Forlì di pittura contemporanea”, del quale Stefano Cairola era il segretario, collegata ad un piccolo e prezioso catalogo, che reca l’introduzione di Cesare Balossini, riscosse un notevole successo di critica, ricevette i complimenti di Casorati e l’incoraggiamento dell’architetto Angelo Crippa. Leonardo Borgese sul Corriere della Sera scrisse: “Lino Tosi ci sembra un espressionista montanaro, arcaico o gotico, chissà come viene da pensare alla musica di Sibelius piuttosto che ad altre pitture”. Seguì due anni dopo una personale a Bellagio, ma questo pittore schivo preferì sempre concentrarsi sulla progressiva semplificazione delle sue creazioni: le figure umane riempivano lo spazio e dialogavano le une con le altre in modo sempre più serrato. Il suo segno conobbe una evoluzione ispirata dall’amore per la pittura di Tanzio da Varallo, drammatica e tormentata come il suo animo inquieto, sulla tela si impressero lunghe pennellate di colore, cariche di espressività.

Tosi proprio attraverso il lavoro lento e paziente della scultura imparò a dominare il suo carattere irruento. Le figure che uscivano dai colpi sapienti e decisi di sgorbie e scalpelli, mantenevano una drammatica vitalità, ma continuò a dipingere, superando il modernariato, approdando a temi di carattere sociale, rappresentando attraverso la pittura la speranza in un avvenire di confronto e dialogo.

Agli Incontri del Giovedì del Movimento Culturale Terza Età di Varallo, il geometra Aristide Torri, conoscitore e amante dell’arte, soprattutto valsesiana, che ha contribuito in taluni casi a salvare e a valorizzare attraverso la conoscenza, aveva tenuto una “lectio magistralis” dedicata al Tosi, proponendo una conversazione sul pittore scomparso pochi anni prima. “Il racconto di una vita” coinvolse il pubblico e suscitò grande emozione, come mi auguro succeda con questa mostra, ispirata alla natura che fu per lui un’inesauribile scrigno: dai fiori arrivò agli alberi e ai boschi, cercando l’Uomo, rappresentato attraverso le mani, trasformate in una cifra espressiva forte come le mani, tormentate, che esprimono lavoro, preghiera, dolore, che accarezzano, ma che più spesso offendono, che subiscono e che finalmente riposano, dopo aver trovato le risposte che la Vita non può dare.

 

Piera Mazzone

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